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Vita di trincea – “Il Pepoli”

di Paul Fussell (storico)

Utente RIIC82500N-psc

da Riic82500n-psc

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Basandosi su lettere, diari e scritti di soldati inglesi che combatterono sul fronte occidentale, l’autore mostra la vita nelle trincee, forse l’aspetto più caratteristico dell’esperienza di guerra del 1914-1918. Egli non si limita a descrivere il livello di vita materiale, ma cerca di ricostruire la percezione che i soldati avevano di tale esistenza.

A partire dall’inverno del 1914 e fino alla primavera del 1918, il sistema delle trincee rimase fisso, con occasionali spostamenti di qualche centinaio di metri e, nelle grandi occasioni, di qualche chilometro.

Di norma, le linee trincerate erano tre. La prima linea distava dovunque da cinquanta iarde a un miglio dalla prima linea nemica. Alcune centinaia di iarde più indietro c’era la linea di rinforzo e qualche centinaio di iarde ancora più indietro quella di riserva. Vi erano tre tipi di trincee: quelle di combattimento come quelle suddette; quelle di comunicazione che correvano più o meno perpendicolari e mettevano in comunicazione le tre linee; infine le «saps», trincee sotterranee, bassi camminamenti che si spingevano entro la terra di nessuno e consentivano l’accesso agli avamposti di osservazione, ai posti d’ascolto, a quelli per il lancio di granate e alle postazioni di mitragliatrici.

Le trincee inglesi erano umide, fredde, puzzolenti e totalmente squallide.

Per contrasto, come gli inglesi scoprirono durante l’attacco sulla Somme, le trincee tedesche erano profonde, pulite, accurate e a volte perfino confortevoli. Avevano pareti ricoperte di assi, corridoi e soffitti; scale di legno ben rifinite; luce elettrica; cucine vere e proprie; e carte da parati e mobili imbottiti, il tutto protetto da pareti esterne in acciaio.

Gli uomini non erano i soli esseri viventi in trincea: erano costantemente in compagnia dei loro pidocchi, che i disinfestatori di professione presenti nelle retrovie, con le loro autoclavi per gli abiti e i bagni bollenti per la truppa, riuscivano ben poco a eliminare.

Un altro motivo perenne di fastidio erano i famosi ratti. Erano neri e grossi, col pelo umido e fangoso. Si cibavano abbondantemente della carne dei cadaveri e dei cavalli uccisi. Gli si sparava con le pistole o li si massacrava con il manico dei picconi. Numerosi aneddoti rammentano la loro voracità, vigoria, intelligenza e coraggio. E naturale che i ratti mangiassero di buon appetito: meno facile è capire come ci riuscissero i soldati. Il lezzo di carne imputridita impregnava ogni cosa, a malapena mascherato dal cloruro di calce spruzzato su tutti i punti particolarmente nauseabondi. Cavalli morti e uomini morti – e parti di entrambi – a volte non venivano seppelliti per mesi e spesso diventavano semplicemente un elemento integrante dei parapetti e delle pareti della trincea. Si poteva fiutare da lontano l’odore della prima del fronte, assai prima di scorgere la linea stessa.

Stare in trincea significò sperimentare una clausura e una costrizione irreali e indimenticabili, e così pure la sensazione di essere disorientati e smarriti. Due cose soltanto si vedevano: la parete di una terra sconosciuta e indifferenziata e il cielo al di sopra. Come unico scenario passibile di variazioni, il cielo acquistò un’importanza preminente. Era la vista del cielo la sola, forse, che poteva persuadere gli uomini che non erano già abbandonati in una fossa comune.

L’esperienza della Grande Guerra fu unica e carica di particolare ironia per la ridicola vicinanza a casa delle trincee. A sole settanta miglia dal mondo puzzolente della terra viscida e gocciolante c’erano i raffinati velluti delle poltrone dei teatri di Londra e il profumo, l’alcool e il fumo di sigari del Café Royal. La strada per arrivarci era facile e familiare: nelle due settimane di licenza dal fronte, gli ufficiali si servivano degli stessi traghetti sulla Manica che avevano conosciuto in tempo di pace, e la presenza degli stessi facchini e camerieri («Felice di servirvi di nuovo, Sir») creava un’orribile pretesa di normalità. Un ufficiale in licenza, osservò Arnold Bennet nel 1917, «aveva fatto colazione in trincea e cenato nel suo club a Londra».

L’assurdità di tutto questo divenne un’ossessione. Scrivendo a casa, un soldato espresse il sentimento di tutti: «L’Inghilterra è così assurdamente vicina…».

Lettere e pacchi impiegavano di norma circa quattro giorni e talvolta soltanto due. Si potevano facilmente inviare cibi esotici, e non soltanto normali cibi non deperibili come salmone e ostriche in scatola, burro e pollo, paté e cioccolato, sempre in scatola, formaggio,

cherry-brandy e vino (a dozzine di bottiglie per volta), ma anche cibi deperibili come pan di zenzero, torte e crostate; frutta, uova e burro freschi; e fiori freschi (primule e violette) per la «mensa». A volte si riceveva per posta un pasto alla buona. Durante la guerra, tuttavia, l’eventualità che potesse un giorno tornare la pace spesso fu messa seriamente in dubbio. Non era necessario essere un pazzo o un visionario particolarmente depresso per immaginare in tutta serietà che la guerra non sarebbe mai finita e che sarebbe diventata la condizione permanente del genere umano. La situazione di stallo e il logoramento sarebbero continuati all’infinito, diventando, al pari del telefono e delle macchine a combustione interna, parte integrante dell’atmosfera ormai accettata dell’esperienza moderna.

 

Articolo tratto da “La grande guerra e la memoria moderna”